Giovanni Guercio
Avvocato, Roma
Dalla Legge 164/82 alla sentenza della Corte di Cassazione n. 15138/15
Legge 14 Aprile 1982 n. 164
Il percorso di riattribuzione chirurgica ed anagrafica di sesso in Italia, per coloro che desiderano intraprenderlo, è regolamentato dalla Legge n. 164 del 1982.
Secondo la predetta legge, in particolare ai sensi dell’art. 3, “il Tribunale, quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, lo autorizza con sentenza” ed “in tal caso, accertata la effettuazione del trattamento autorizzato, dispone la rettificazione” anagrafica, appunto. In base a tale norma, quindi, i presupposti affinchè il Giudice possa emettere un ordine per l’ufficiale di stato civile di rettificare l’atto di nascita della persona interessata, potrebbero eventualmente sussistere solo se e quando sarà stato posto in essere l’intervento medico-chirurgico.
Successive modificazioni ex art. 31 D. Lgs. 1 Settembre 2011 n. 150
Nulla di sostanzialmente nuovo ha introdotto il D. Lgs n. 150 del 2011 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione). La nuova disciplina, infatti, dispone che il processo debba seguire le regole dei giudizi ordinari di cognizione, anziché la più concentrata procedura prevista dalla L.164/82, il che, in poche parole, lungi dall’avere “semplificato” la rettificazione di sesso, ha determinato un allungamento dei tempi necessari ad ottenere la sentenza (oltre ad un aumento esponenziale dei costi vivi affrontati dalla persona interessata, passati da un contributo unificato di circa 80 euro ad uno di 518 euro).
Sul piano dei requisiti per ottenere la rettificazione di sesso, la legge del 1982 è infatti rimasta sostanzialmente invariata, avendo il legislatore lasciato al Tribunale il compito di analizzare ogni singola situazione (ad esempio, le condizioni psico-sessuali della persona, l’età, lo stato di salute): in sostanza il compito del Tribunale è rimasto, in tutto e per tutto, un giudizio di meritevolezza degli interessi del singolo. Così come senza risposta sono rimaste le sollecitazioni dottrinali, maturate negli anni, circa i chiarimenti su quali siano le condizioni per ritenere “necessario” l’intervento chirurgico né, analogamente, si è provveduto ad introdurre disposizioni che disciplinassero l’eventualità di una rettifica anagrafica in difetto di intervento chirurgico.
Come si è potuto facilmente constatare, le suddette norme di riferimento (L. 164/1982 e D.Lgs. 150/2011) certamente non eccellono per chiarezza, stabilendo da un lato che la rettificazione del sesso e del nome possa avvenire esclusivamente con sentenza del Giudice “a seguito di modificazioni dei suoi caratteri sessuali” e, dall’altro che “quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, il Tribunale lo autorizza con sentenza passata in giudicato”. Insomma, dalla legge non si ricava quali siano i caratteri sessuali da modificare (Bilotta 760).
Prima giurisprudenza senza nomina del consulente tecnico d’ufficio in fase di autorizzazione agli interventi chirurgici ed in fase di rettifica anagrafica
La legge 164/82, all’art. 2 comma 4, prevede la possibilità (non certo l’obbligo …) per il Giudice di nominare un consulente tecnico d’ufficio (C.T.U.) che attesti le condizioni psico-sessuali della persona interessata. La norma testualmente recita: “Quando è necessario, il giudice istruttore dispone con ordinanza l’acquisizione di consulenza intesa ad accertare le condizioni psico-sessuali dell’interessato”. Purtroppo quella che era una “possibilità”, dal 1982 (anno di entrata in vigore della legge) e sino al 1996, è diventata la prassi in uso ai Tribunali italiani, che hanno sempre e comunque nominato tale C.T.U., senza chiedersi più di tanto se tale attività ausiliaria (dispendiosa in termini di tempo, di imbarazzo e, soprattutto, economici per la parte ricorrente) fosse effettivamente “necessaria”. Ma si dirà di più: nell’assoluto silenzio della norma in tal senso, i medesimi Tribunali hanno, sino ad allora, adottato la prassi di nominare una seconda C.T.U. anche dopo l’effettuazione dell’intervento chirurgico, al sol fine di accertare se tale intervento fosse stato effettivamente espletato (così raddoppiando quei tempi e, soprattutto, quei costi di cui sopra). Fortunatamente nel 1996 qualche avvocato volenteroso, insieme a giudici altrettanto zelanti, ha voluto porsi lo scrupolo di evidenziare che, in presenza di una relazione psico-sessuale giurata o, meglio, redatta da un pubblico nosocomio, non sussistesse “necessità” alcuna di nominare un altro perito, che altro non avrebbe fatto se non confermare quanto colleghi, altrettanto se non più esperti in materia, avevano già certificato. Assolutamente inaccettabile era inoltre la nomina del secondo C.T.U., che doveva limitarsi a verificare che l’intervento chirurgico fosse stato effettuato, quando, in atti, fossero già state depositate esaustive e complete cartelle cliniche, in copia conforme, attestanti tale effettuazione e costituenti, a tutti gli effetti, atti pubblici facenti fede fino a querela di falso. E fu così che, nel dicembre 1996, in accoglimento delle istanze dello scrivente, il Tribunale di Roma si pronunciò favorevolmente, evitando la nomina dei tanto temuti C.T.U. (non per sé stessi, quanto per i costi e le tempistiche da affrontare, interamente a carico del ricorrente) e costituendo un precedente giudiziario di fondamentale importanza, la cui successiva esibizione in casi analoghi, sia presso lo stesso Tribunale di Roma che presso altri Fori italiani, ha consentito lo sviluppo di una nuova prassi, questa volta virtuosa, grazie alla quale oggi la nomina del perito è divenuta ipotesi assolutamente residuale.
Giurisprudenza sulla rettifica anagrafica FtM senza necessità della ricostruzione (fallo-plastica)
Altro ostacolo da affrontare (anche questa volta nell’assoluto silenzio della norma in tal senso) ha costituito l’ulteriore, errata interpretazione della legge 164/82 per le persone sottoposte a transizione da femminile a maschile (FtM), in ordine alle quali i Tribunali, in assenza di totale ricostruzione degli organi genitali (nella fattispecie pene e testicoli), rifiutavano la rettifica anagrafica. Ancora una volta la normativa vigente è scarna; recita testualmente l’art. 3 comma 2 della L. 164/82: “… il Tribunale, accertata l’effettuazione del trattamento autorizzato, dispone la rettifica …”, ma non chiarisce in alcun modo quale fosse questo “trattamento autorizzato”. I Tribunali quindi hanno per lungo tempo concluso per il rigetto della domanda, sostanzialmente in quanto non risultava ricostruito l’organo sessuale maschile. Il problema quindi consisteva nello stabilire se la rettificazione anagrafica di cambiamento di sesso fosse consentita a seguito di isterectomia totale con annessiectomia bilaterale e mastectomia bilaterale, pur in mancanza di fallo-plastica.
A parere dello scrivente (fortunatamente condiviso dal Tribunale …) “la risposta positiva sembra discendere … dalla ratio della normativa in esame; questa, invero, non limita la rettificazione a quei casi in cui vi sia discordanza tra lo stato anagrafico e le caratteristiche somatiche sessuali di una persona, bensì la consente anche laddove dette caratteristiche somatiche sono perfettamente coincidenti con quelle anagrafiche e cionondimeno le stesse non corrispondono alla personalità del soggetto, che accusa fin dall’età giovanile istintiva ed incontrollabile tendenza a comportarsi, per sé stesso e nella vita di relazione, come persona di altro sesso. Si tratta per l’appunto di casi in cui si rende necessario … il trattamento medico-chirurgico. Se ne deduce che ciò che la Legge mira a tutelare è la corrispondenza anagrafica all’effettiva personalità maschile o femminile dell’individuo. In detta prospettiva, le modificazioni dei caratteri sessuali fisici rappresentano solo lo strumento per il completamento di un quadro della personalità che già esiste e che è l’effettivo presupposto della rettificazione”. Pertanto, laddove il Tribunale abbia già accertato (peraltro autorizzandolo con sentenza) la sussistenza di una personalità maschile (cosiddetto sesso psicologico o comportamentale) opposta al sesso biologico di appartenenza e per tale ragione abbia acconsentito alla modifica dei caratteri sessuali di appartenenza, di tipo femminile, l’intervenuta eliminazione di questi ultimi è assolutamente sufficiente a giustificare la rettifica anagrafica con l’iscrizione del sesso maschile. In tale contesto, la circostanza secondo la quale la persona interessata non si è ulteriormente sottoposta all’intervento di ricostruzione di un pene, appare di scarso rilievo al fine della richiesta rettifica di stato civile. In tal senso si sono espressi i Tribunali di Roma, di Genova, di Torino, di Milano e di Cagliari, costituendo un orientamento giurisprudenziale altrettanto diffuso e convincente che la disciplina giuridica di riferimento (L. 164/82) richiede, al fine della rettifica dello stato civile, esclusivamente la modifica dei caratteri sessuali originari (nella fattispecie mammelle, utero e ovaie) e non la piena acquisizione delle caratteristiche dell’altro sesso (fallo-plastica), tenendo conto che trattasi di intervento di difficile realizzazione, non privo di rischi e, peraltro, non necessario al fine che ne occupa.
Genesi della rettifica anagrafica senza intervento chirurgico
Seppur nella scarna rigidità della normativa vigente, come già detto, la giurisprudenza ha continuato a “supplire” alle lacune legislative, spingendosi oltre: la questione dell’idoneità delle condizioni psico-sessuali come condizione, autonoma e sufficiente, per ottenere una sentenza autorizzativa alla rettifica del sesso e del nome, pur in assenza di qualsivoglia intervento chirurgico. La legge 164/82 del resto, a una sua attenta lettura, “non prevede il trattamento chirurgico di adeguamento degli organi sessuali come presupposto indispensabile per la rettifica, ma dispone solo che tale intervento debba essere autorizzato quando necessario”. Orbene, se consideriamo che l’attuale disciplina in materia di rettificazione dell’attribuzione di sesso debba obbedire a esigenze di tutela della salute, quale diritto costituzionalmente garantito (Corte Cost. n. 161/1985 e n. 170/2014), risulta impossibile obbligare un soggetto a sottoporsi a un intervento chirurgico, qualora esso possa rivelarsi dannoso o, semplicemente, non desiderato o non necessario per il raggiungimento del benessere/salute psico-fisica di quel soggetto. La parola-chiave risiede quindi in quel termine “necessario”, indicato dalle norme di riferimento; e l’intervento chirurgico non è, appunto, necessario, ogniqualvolta la persona viva con equilibrio e soddisfazione la propria corporeità, indipendentemente dal proprio sesso psichico e/o comportamentale.
Il Tribunale di Roma, con sentenza della Dott.ssa Campolongo del 18.10.1997, per la prima volta affermava il principio secondo il quale la legge n. 164/82 non prevede il trattamento chirurgico di adeguamento degli organi sessuali come presupposto indispensabile per la rettifica, ma dispone solo che tale intervento debba essere autorizzato, quando necessario: “in caso di transessualismo accertato, il trattamento medico-chirurgico previsto dalla legge n.164/82 è necessario nel solo caso in cui la discrepanza tra il sesso anatomico e la psico-sessualità, determini un atteggiamento conflittuale di rifiuto dei propri organi”. Pertanto deve ritenersi che, nei casi in cui non sussista tale conflittualità, non è necessario l’intervento chirurgico per consentire la rettifica anagrafica; in altri termini, la legge 164/82 non prevede il trattamento medico-chirurgico di adeguamento degli organi sessuali come presupposto indispensabile per la rettifica, ma dispone solo che tale intervento debba essere autorizzato, quando necessario.
Dello stesso avviso è sempre il Tribunale di Roma, con sentenza del 22.03.2011 (Giudice relatore Dott.ssa Colla): “… si evince dalla documentazione in atti … che lo stesso ha raggiunto un livello tale di integrazione dei propri organi genitali con la propria immagine corporea, da poter vivere in modo soddisfacente sia a livello personale e sia nelle relazioni con gli altri”; “… viene affermata una nozione di identità sessuale che tiene conto non solo dei caratteri sessuali esterni, ma anche di elementi di carattere psicologico e sociale, derivandone una concezione del sesso come dato complesso della personalità, determinato da un insieme di fattori, dei quali deve essere agevolato o ricercato l’equilibrio, privilegiando il o i fattori dominanti”.
Questo indirizzo giurisprudenziale è stato confermato anche da altri Tribunali: il 03.05.2013 dal Tribunale di Rovereto, il 10.12.2013 dal Tribunale di Siena, il 4.11.2014 dal Tribunale di Messina.
Tali interpretazioni risultano del resto pienamente conformi alle recenti raccomandazioni del Consiglio d’Europa (risoluzione del 29 aprile 2010), raccomandazioni cui altri paesi (Regno Unito, Spagna, Portogallo, Germania, Austria) si sono già da tempo uniformati ed ove il cambiamento di sesso anagrafico senza quello chirurgico è esplicitamente consentito dalla Legge.
Quella che, per il momento, rappresenta l’ultima pagina di questa genesi è stata scritta dalla Corte di Cassazione il 20 luglio 2015 con la sentenza n. 15138/15, provvedimento che è stato definito di “storica” importanza contro l’obbligo di “sterilizzazione forzata” delle persone transessuali. La Suprema Corte, infatti, ha suggellato, arricchendolo di contenuti e di peso giuridico pregnante, il principio formatosi nel corso degli anni grazie ai provvedimenti emessi dai Tribunali italiani prima menzionati: la non necessità di modificazione chirurgica dei caratteri sessuali primari per ottenere la rettifica anagrafica del sesso e del nome. La stessa sentenza della Corte di Cassazione riconosce che il fenomeno del transessualismo ha subito mutamenti dall’entrata in vigore della legge 164/82 e sino ad oggi, evoluzione che, come abbiamo già detto, era peraltro già stata rilevata dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 161/1985), la quale, quasi a presagirne i successivi e odierni sviluppi, aveva ritenuto che “la legge n. 164 del 1982 si colloca nell’alveo di una civiltà giuridica in evoluzione, sempre più attenta ai valori di libertà e dignità della persona umana, che ricerca e tutela anche nelle situazioni minoritarie”. In tale ottica la sentenza della Suprema Corte, in ordine al problema di identità di genere, con formula illuminante, interpreta la chirurgia non come la soluzione, ma solo come un eventuale ausilio, ove necessario, per il benessere della persona. Un’interpretazione che non tiene conto di tale evoluzione, secondo la Corte, “finisce per tradire la ratio della Legge” e “la scelta di sottoporsi alla modificazione chirurgica dei caratteri sessuali primari non può che essere una scelta espressiva dei diritti inviolabili della persona, sacrificabile solo se vi siano interessi superiori da tutelare”. Non avendo la normativa vigente indicato quali potrebbero essere tali interessi superiori, “l’interesse pubblico alla definizione certa dei generi, anche considerando le implicazioni che ne possono conseguire in ordine alle relazioni familiari e filiali, non richiede il sacrificio del diritto alla conservazione della propria integrità psico-fisica”. Del resto, una differente interpretazione sarebbe in netto contrasto con il principio, costituzionalmente garantito, dell’impossibilità di imporre a chicchessia un qualsiasi trattamento sanitario che violi la dignità umana, in quanto non necessario o, semplicemente, non voluto. Se così, non fosse, secondo la normativa vigente, per godere pienamente del diritto all’identità personale sarebbe “necessario sottoporsi a un intervento chirurgico potenzialmente pericoloso” ovvero, “per tutelare la propria salute, sarebbe necessario sacrificare il diritto all’identità personale. L’intervento di adeguamento diverrebbe pertanto un trattamento sanitario obbligatorio, laddove il diritto all’auto-determinazione è inviolabile e non può essere compresso neanche da uno dei tre poteri dello Stato, nel senso che alcuno potrà sostituirsi al ricorrente per stabilire se sia o meno opportuno modificare i propri caratteri sessuali primari al fine di vedere rispettata anche dai terzi la propria identità personale”. Inoltre, interpretando l’art. 3 della L. 164/82 nel senso di un’indefettibile necessità a ricorrere all’intervento chirurgico per ottenere la rettificazione dei dati anagrafici, si violerebbe il diritto fondamentale alla salute, così come costituzionalmente garantito, in quanto, anzitutto, si imporrebbe alla persona “un trattamento sanitario inumano e degradante, ove non sia necessario” e si esporrebbe il soggetto interessato a una possibile “alterazione dell’equilibrio psicologico della persona”, non coincidendo il concetto di salute con quello di integrale benessere della persona.
La Corte di Cassazione, in conclusione, non ritenendo necessaria ai fini della rettificazione anagrafica la modificazione definitiva dei propri caratteri sessuali primari, con la suddetta sentenza ha accolto la rettificazione di sesso senza intervento chirurgico.
Come riporto anche nel titolo della mia relazione, e come la genesi che ho illustrato ha ampiamente dimostrato, la tutela dell’identità di genere è un istituto giuridico in divenire, che si fonda sull’evoluzione del sentire comune, nell’ambito di una tendenza storica in continua evoluzione. Di ciò è conferma l’ultimo tassello di questo mosaico, che, con la sentenza della Corte di Cassazione dello scorso luglio, trasforma in estensiva l’interpretazione di una Legge (la 164 del 1982 appunto), che verosimilmente aveva invece un significato restrittivo. Ed è chiaro, a questo punto, che la Legge, come fonte del diritto, è affiancata, o oserei dire superata, non solo dal ruolo di egregia “supplente” reso, come si è visto, dalla giurisprudenza, ma anche di un’altra fonte, forse non menzionata dal sistema tecnico-giuridico, che è l’inevitabile evoluzione del costume e, soprattutto, del sentire collettivo.