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Luca Chianura
Psicologia Clinica del Servizio di Adeguamento tra Identità Fisica e Identità Psichica – SAIFIP, AO San Camillo-Forlanini, Roma
La complessità di una definizione
Era il lontano 1932, quando Freud, nel testo “Introduzione alla Psicoanalisi” affermava: “C’e qui un invito a familiarizzare con l’idea che la proporzione in cui il maschile ed il femminile si intrecciano nell’individuo è soggetta ad oscillazioni assai rilevanti”. Sulla stessa frequenza esplicativa, si collocano anche le prime teorizzazioni di Harry Benjamin (1), le ricerche di Bem (2), per arrivare alle considerazioni di Stoller (3) e di Money (4) e di molti altri studiosi della materia: l’orientamento prevalente si è sviluppato e concretizzato in un’aspra critica nei confronti della logica di un pensiero bipolare maschio/femmina, con l’intento di disegnare un quadro diverso, nel quale il maschile e il femminile, dimensioni indipendenti e presenti in diverse proporzioni per ogni individuo, si pongono come i due punti estremi di un continuum, i cui diversi punti rappresentano il ventaglio delle possibilità dei vissuti e delle relative manifestazioni, tra l’uno e l’altro genere. Soprattutto Jung (5,6) si è concentrato sulla descrizione dell’essere umano come “doppio”, in quanto integra in sé elementi psichici che appartengono ad entrambi i sessi: l’ “Anima” che è la personificazione delle tendenze psicologiche femminili nell’uomo e l’ “Animus” che è la personificazione di quelle maschili nella donna. Anche Benjamin (7), più recentemente, parte dall’assunto che i fenomeni dello sviluppo umano siano infinitamente complessi e che una varietà di fattori compongano l’identità di genere di ogni singolo individuo.
“Il nascere uomo o donna … porta in sé una condizione di essere che orienta ben presto in direzioni obbligate il movimento della coscienza che deve progettarsi per il futuro” (8): questa “condizione di essere” che si specifica in un crescere e in un farsi incessante di mascolinità e femminilità, risulta composta da elementi genetici, anatomo-fisiologici, psicologici, familiari e relazionali, contestualizzati in una determinata cultura e società, sotto la spinta di forze di varia natura.
Per quanto concerne l’eziopatogenesi, le riflessioni cliniche più recenti e le ridotte ricerche presenti in letteratura (9-14) hanno confermato la validità del modello multifattoriale-interazionista, che include la presenza di fattori biologici potenzialmente predisponenti, anche se tuttora sconosciuti, e storie evolutive culturalmente connotate. Tali condizioni esistenziali dipenderebbero, quindi, da una “discordanza” nell’ambito della costellazione di fattori, biologici e ambientali, da cui si origina l’identità di genere stessa. La letteratura, circa l’influenza dei fattori biologici sulla differenziazione sessuale, si distribuisce tra diversi settori della genetica, dell’endocrinologia prenatale, della neuropsicologia e della neuroanatomia. Tuttavia, anche se Stoller già nel 1964 (15) indicava alcuni fattori genetici e gonadici predisponenti un’”alterazione” dell’identità di genere, nessun fattore strutturale è stato identificato, sino ad oggi, come determinante nell’eziopatogenesi di tali condizioni.
Nella letteratura e all’interno della comunità scientifica, pertanto, si sono succedute, dal 1966, anno di pubblicazione del libro “The transsexual phenomenon” di Harry Benjamin (1), sino ai giorni nostri, diverse teorizzazioni e numerose ricerche sperimentali, che hanno comportato frequenti cambiamenti nella nosografia e nei criteri diagnostici per l’identificazione di quello che era stato definito “Il fenomeno transessuale”.
Attualmente, come in passato, tra i criteri più diffusi, condivisi e riconosciuti dalla comunità scientifica vi sono quelli stabiliti e proposti dall’APA (American Psychiatric Association) all’interno del “Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders-DSM” che ha proposto, nelle edizioni che si sono succedute negli anni, diversi termini e diversi criteri diagnostici: il termine “transessualismo”, presente sino all’edizione del 1987 (16,17), scompare nell’edizione del 1994 (DSM IV, 18) dove viene sostituito con il termine “Disturbo dell’Identità di Genere”. Attualmente, nell’ultima versione del 2013 (DSM 5°, 19) si riporta il termine di “Disforia di Genere”. Negli altri criteri diagnostici formulati e redatti dalla World Health Organisation (WHO) nel 1992, raccolti all’interno dell’“International Classification of Disorders” (ICD-10), è ancora utilizzato il termine “transessualismo”.
Accanto a tali considerazioni inserite e provenienti dal mondo scientifico, si è potuto assistere, all’interno della comunità transessuale-transgender, alla creazione, alla diffusione e alla definizione di un’identità e di una cultura “transgender”, che ha preso forma proponendosi l’obiettivo di superare la logica binaria della sessualità, per condurre verso numerose e differenti forme d’espressione:
- sia del proprio orientamento sessuale (inteso come tendenza alla risposta affettiva-sessuale);
- sia della propria identità di genere (intesa come percezione di sè stessi in quanto maschio-femmina);
- sia del proprio ruolo di genere (inteso come modalità comportamentali esterne che riflettono il senso interiore del sentirsi maschio-femmina).
Inoltre, il termine “transgender/transgenderismo” risulta più consono alle nuove tendenze rispetto a quello di “transessuale/transessualismo” (seppure sia ancora il termine più in uso nel linguaggio popolare e non solo), in quanto deriva etimologicamente dalla parola “gender” (genere), e non da “sesso”, e quindi possiede connotazioni e significati più psicologici o culturali piuttosto che biologici. Infatti, il termine “transgender” lo si può considerare un termine ombrello, che comprende tutte quelle persone che non riescono a riconoscersi o identificarsi nei modelli socio-culturali attuali di identità e ruolo di genere, avvertendoli come troppo restrittivi per l’espressione del proprio genere. Il termine “transessuale”, invece, si riferisce a coloro che vivono la stessa discordanza tra l’identità di genere e il sesso assegnato alla nascita, ma che desiderano un adeguamento/modificazione dei caratteri sessuali primari e secondari.
Non sono mai stati fatti studi epidemiologici sull’incidenza e sulla prevalenza del fenomeno, considerato che gli sforzi per ottenere stime realistiche incontrano enormi difficoltà metodologichee (21,22). Per varie ragioni, i ricercatori che ne hanno studiato l’epidemiologia si sono concentrati su quei sottogruppi di individui di genere non-conforme più facili da individuare, ossia persone transessuali affette da disforia di genere che si rivolgono a centri/strutture/cliniche specializzate per le terapie collegate alla transizione di genere (22).
De Cuypere et al (23) hanno rivisto diversi studi epidemiologici, fatti nel corso di 39 anni, conducendone anche altri loro stessi. La prevalenza riportata in questi 10 studi varia da 1:11.900 a 1:45.000 per soggetti da “maschio a femmina” (M-to-F) e da 1:30.400 a 1:200.000 per soggetti “da femmina a maschio” (F-to-M). Alcuni studiosi suggeriscono che la prevalenza è molto più alta, a seconda delle metodologie usate nella ricerca (ad esempio, 24).
In tale sede, pare infine opportuno riportare che in Italia esistono diversi centri/strutture pubbliche (Bari, Bologna, Firenze, Milano, Napoli, Roma, Torino, Torre del Lago (LU), Trieste) strutturati attraverso la presenza di un’equipe interdisciplinare (quanto meno con professionisti delle seguenti discipline: psicologia, endocrinologia, chirurgia) che prende in carico l’utenza dal primo contatto all’eventuale intervento chirurgico. Tali centri/strutture sopra menzionati afferiscono all’Osservatorio Nazionale sull’Identità di Genere-ONIG, associazione che raggruppa appunto i centri/strutture, i singoli professionisti e le associazioni di utenti interessate al tema. L’ONIG, in collegamento con la più importante società scientifica internazionale del settore, World Professional Association for Transgender Health (WPATH), si occupa, tra l’altro, di lavorare periodicamente alla stesura di Linee Guida Nazionali (“Standard sui programmi di adeguamento”) e alla compilazione di specifici protocolli diagnostici e terapeutici che prevedono trattamenti in accordo alle Linee Guida suddette.
I percorsi psicologici in età evolutiva
Di Ceglie (11), proponendo il concetto di “organizzazione atipica dell’identità di genere” (“atypical gender identity organization – AGIO”), ha tentato di fornire una comprensione multidimensionale e multifattoriale della condizione transessuale/transgender. La funzione di tale “organizzazione atipica”, descritta come una modalità di integrare esperienze atipiche che hanno una base biologica con percezioni nell’area sessuale, si concretizza nell’assicurare un senso di sopravvivenza psicologica di fronte a esperienze di catastrofe psichica e caos nella prima infanzia.
Non esiste una stima attendibile, nella popolazione generale, riguardo l’incidenza di problematiche relative all’identità di genere nell’infanzia. L’esperienza clinica indica che si tratta di condizioni piuttosto rare (25). I maschi vengono inviati per una valutazione più spesso delle femmine, con un rapporto approssimativo alquanto variabile, che si aggira dal 5:1 secondo alcune ricerche (9) al 2:1 secondo altre (26). Tale sproporzione può, almeno in parte, riflettere la maggior stigmatizzazione che l’assunzione del comportamento del sesso opposto comporta per i maschi rispetto alle femmine. È opportuno ricordare, infatti, che l’isolamento, l’ostracismo e atti diversificati di bullismo, perpetuati da parte dei coetanei e/o dei compagni, possono essere conseguenze comuni per i maschi che mostrano atteggiamenti comportamentali e preferenze ludiche marcatamente femminili; le femmine, invece, sono generalmente meno rifiutate ed emarginate, sino ad arrivare a coprire anche un ruolo di leader nel gruppo dei pari (27).
Nel ribadire che il termine “identità di genere”, introdotto da Stoller nel 1964 (15), indica il senso di sé, l’unità e la persistenza della propria individualità maschile, femminile o ambivalente (28), si evidenzia che l’identità di genere si consolida e struttura, secondo alcuni autori (15), in un’età alquanto precoce, intorno ai 3-4 anni, fino a raggiungere una “costanza di genere” verso i 6-7 anni, quando il bambino acquisisce la consapevolezza che il proprio sesso rimarrà invariato nel tempo.
Pertanto, le problematiche, le confusioni e i disagi relativi alla propria identità di genere (un maschietto che “si sente/si comporta” da femminuccia e una femminuccia che “si sente/si comporta” da maschietto) possono manifestarsi anche in un’età particolarmente precoce, seppure spesso si tende ad arrivare alla consultazione clinica con l’inizio della scolarizzazione, su segnalazione degli insegnanti e/o perché i genitori si preoccupano del fatto che quella che essi consideravano una “fase/periodo” non accenni a passare. Si evidenzia che la presenza di interessi tipici del sesso opposto è un fenomeno che si manifesta sia nel corso del “normale” sviluppo evolutivo, sia quando alcuni processi evolutivi risultano “atipici” (13,29). Talvolta, comportamenti tipici del sesso opposto rappresentano solo una breve fase di transizione, soprattutto nel bambino intorno ai 2-3 anni; in altri casi, indicano una “flessibilità di genere” (30), cioè casi in cui esiste l’interesse per attività del sesso opposto, senza che via sia però nessun sentimento di ripugnanza o avversione per il proprio sesso. Infine, possono verificarsi situazioni cliniche contraddistinte da diversi segnali di una sofferenza intensa e duratura, che può dare l’avvio a un complesso di difficoltà e problematiche emotive e comportamentali perduranti nel tempo. Si evidenzia, inoltre, che alcuni comportamenti atipici possono presentarsi, in alcuni casi, in maniera graduale, in altri, invece, si sviluppano rapidamente e il comportamento del sesso opposto del bambino, tra cui vestire abiti materni, indossare gioielli e scarpe col tacco e giocare con il trucco, si consolida rapidamente nell’arco di poche settimane o mesi.
Tali problematiche relative all’identità di genere nell’infanzia si possono anche manifestare come parte di un quadro clinico più vasto e complesso: sono stati descritti in letteratura sintomi spesso correlati a tali condizioni, quali disagi e difficoltà a livello familiare e relazionale (isolamento ed emarginazione dal gruppo dei pari), problemi di apprendimento e di rifiuto scolastico, ansia e depressione (10,26,27,31,32).
Per quanto concerne gli esiti in età adulta del DIG, si delinea una grande fluidità e variabilità nell’esito, in quanto “… soltanto una piccola percentuale di questi soggetti diventa transessuale o travestito; la maggior parte dei bambini interessati sviluppa alla fine un orientamento omosessuale ed alcuni un orientamento eterosessuale senza travestitismo o transessualismo” (11).
Considerata la scarsa preparazione dei servizi sanitari territoriali su un tema così specifico, si evidenzia l’importanza di rivolgersi ai centri/strutture che, in quanto operanti già nel settore con le persone adulte, possano garantire la formazione necessaria per poter offrire sia interventi di valutazione al bambino e all’adolescente, sia interventi di sostegno psicologico o psico-terapeutico rivolti al minore e alla sua famiglia.
I percorsi psicologici in età adulta
Il percorso psicologico, pur non specificato dalla legge 164/82, è ritenuto determinante e “consigliato” dalle strutture nazionali che hanno approvato e recepito gli Standard italiani sui percorsi di adeguamento dell’Osservatorio Nazionale sull’Identità di Genere – ONIG, e delle maggiori organizzazioni internazionali tra cui la WPATH.
I percorsi psicologici, siano essi consulenziali o psico-terapeutici, non si dovrebbero limitare a proporre un percorso per la diagnosi differenziale e un sostegno psicologico nel processo di adeguamento endocrinologico e chirurgico; piuttosto dovrebbero mirare a inserire il percorso diagnostico e gli adeguamenti somatici in un percorso di evoluzione personale e di auto-consapevolezza, che consenta alla persona un benessere reale, globale e protratto nel tempo, percorso del quale l’intervento di riattribuzione chirurgica del sesso può diventare solo una delle possibili alternative e soluzioni (33,34). Gli interventi psicologici, siano essi configurabili come counselling di sostegno o come percorsi psico-terapeutici più stabili e durevoli, mirano a chiarire e sostenere il processo di consapevolezza dell’identità personale, lasciando inizialmente sullo sfondo la problematica di genere (35). Tendono a consolidare la forza dell’Io attraverso esperienze espressive e integrative, mirate sia a stimolare le potenzialità creative in direzione di una vita sempre più soddisfacente sia per quanto riguarda il raggiungimento di un migliore equilibrio interiore ed esteriore sia per ciò che concerne la diminuzione del carico di sofferenza soggettiva (36). Tali percorsi psicologici, che si possono svolgere in incontri individuali e di gruppo, sono ritenuti indispensabili, altresì, per elaborare tematiche inerenti all’identità e alla struttura di personalità, per sostenere e integrare le modificazioni ormonali, somatiche e le esperienze relazionali e sociali della persona, e per favorire lo sviluppo delle sue potenzialità e la sua integrazione sociale.
Durante l’iter di adeguamento, sarebbe altresì opportuno sostenere counselling di coppia e familiari, con lo scopo di sostenere il/la partner e la famiglia nell’affrontare specifici problemi e/o momenti di crisi correlate al percorso e di aiutare la persona a mobilitare tutte le risorse intra-psichiche e dell’ecosistema di riferimento nei diversi momenti di adeguamento delle caratteristiche fisiche e di ruolo nel sesso riassegnato.
Nel percorso psico-diagnostico, invece, sono previsti, infine, colloqui psicologici e somministrazione di test finalizzati a raccogliere la storia di vita della persona e a delinearne il profilo psicologico. La relazione risultante dall’elaborazione dei dati derivanti dalle consultazioni, dagli accertamenti medici di laboratorio e dai test psico-diagnostici è oggetto di valutazione interdisciplinare di eleggibilità nell’iter psico-fisiologico di adeguamento.
La relazione psico-diagnostica, rilasciata all’utente, alla fine del percorso diagnostico, nei casi in cui esistano i presupposti per la richiesta di autorizzazione alla “riattribuzione chirurgica del sesso” o al solo cambio anagrafico, la si può ritenere un’adeguata documentazione da presentare al Tribunale di residenza, al fine di poter evitare la nomina da parte del Giudice della Consulenza Tecnica di Ufficio-CTU, con conseguente risparmio economico per l’utente.
Si ritiene, anche in ambito scientifico internazionale, che gli interventi psicologici, sia di valutazione psico-diagnostica sia di sostegno psicologico, siano essenziali e condizionanti per ogni forma di trattamento e presupposto vincolante per ogni decisione di intervento endocrinologico e chirurgico e che, pertanto, la competenza specifica nel settore degli operatori è condizione imprescindibile per ridurre al minimo le possibilità di errori di valutazione, dalle conseguenze spesso drammatiche.
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